Il "nomos" di José

Cult
La performance strategica di Mourinho
3 marzo 2009, Centro sportivo "Angelo Moratti", Appiano Gentile
Video 01 - 02 - 03

La celeberrima conferenza stampa di José Mourinho del 3 marzo 2009 - banalizzata negli slogan della "prostitusione" e dello "zero tituli" da una stampa drammaticamente priva degli strumenti per comprendere, e non subire, l'eversione strategica del linguaggio usato dall'allenatore portoghese (qualcosa di paragonabile allo shock comunicativo provocato da Carmelo Bene nella storica performance al "Maurizio Costanzo show" del 27 giugno 1994 [vedi]) - non è solo un atto unico stupefacente, una professionale "improvvisazione" su un canovaccio ben preparato (secondo i migliori canoni della Commedia dell'Arte), ma un discorso politico disvelatore.

Tra i pochissimi, Edmondo Berselli - colto e fine scrittore prematuramente scomparso - ne avvertì immediatamente la portata in un bell'articolo pubblicato su "La Repubblica": Il leninismo di mr Mourinho [leggi]. La declinazione della categoria del 'politico' schmittiana della dicotomia "amico" vs "nemico" [leggi] disvela il realismo politico di Mourinho e la sua postmodernità, là dove l'eversione è in realtà la ricostruzione di un ordine, in una elaborazione culturale capace - non a caso - di dettare il linguaggio a venire. Di farsi, appunto, "nomos" [leggi].

La performance mourinhana è letta da Berselli nella sua natura di atto di potere: "Mourinho ha deciso che la sua partita più seria non si giocava in campo, bensì nelle interviste del dopopartita. È il calcio più "politico" che esista. In questa politica giocata con altri mezzi, Mourinho ha scelto di essere un leader totale. Perché Mourinho è un guru, un santone, un filosofo. In quanto tale, è un manipolatore di concetti. Nessun allenatore ha mai parlato così. E si capisce: in quanto leader filosofico, il tradizionalista Mourinho è in grado di agitare concetti e retoriche strappando le convenzioni. Anzi, crea una realtà parallela. Prende gli episodi più controversi del torneo e li manipola in una ricostruzione sua, una storia d'autore, sempre esibendo la faccia imbronciata di chi dice verità sgradite ed è pronto a screditare chi non le accetta".

Il realismo politico del pensatore è collocato nel suo contesto strategico: "Nella sua fusion culturale, fra memorie salazariste e slanci guevaristi, fra la tradizione spirituale e il guerrilla marketing, Mourinho ha una visione realistica della politica e dunque anche del calcio. Qui nessuno è innocente. Solo che mentre gli altri si limitano a pensarlo, lui lo dice. E così parlando è riuscito in un'impresa di autentico splendore strategico: cioè a trasformare la società più forte e più ricca del campionato in una fortezza minacciata da nemici insidiosi, da truppe vendicative, da gang di assalitori che agitano la bandiera della giustizia senza averne il titolo. Sugli spalti di questo fortilizio minacciato, Mourinho maneggia una dialettica da sofista, tramutando provocatoriamente il vittimismo in un'arma offensiva, e il calcio in una disfida teologica, o teosofica, con il campo di gara definito da categorie supreme: la verità, la giustizia, la salvezza, e là in fondo la Vittoria, elusivo miraggio, eterna delusione, un fado mistico ai confini di un mondo senza fede".

Berselli è inquietato dalla disvelazione schmittiana: "Un filosofo laureato inorridirebbe all'idea che qualcuno potesse vedere nel latino Mourinho l'inverarsi dello schema schmittiano "amico/nemico". Eppure, nel mondo del calcio, che copre il cinismo con le convenzioni, e la ferocia opportunistica con l'ipocrisia, Mourinho fa l'umanamente possibile per incarnare un principio di ostilità assoluta. Non vuole amici, niente smancerie. «Non sono amico suo, sinceramente», ribatte al giornalista Mario Sconcerti, che ha osato proporgli un paragone con i risultati del suo predecessore Roberto Mancini. Altre volte disdegna con improntitudine l'approccio degli intervistatori, e ogni volta impone regole tutte sue, perché la prima norma di Carl Schmitt recita: «Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione»".

Nondimeno, la chiosa è indulgente: "Deve piacergli l'ordine, anche politicamente. Ma allora è spettacolare il modo in cui una mentalità arcaica si è proiettata nei cieli della tarda modernità. A farsi prendere la mano verrebbero in mente Clausewitz, Lenin, Mao, le avanguardie, i futurismi, i decisionismi. È come se una destra conservatrice, attraverso di lui, fosse riuscita a gestire le categorie rivoluzionarie della sinistra più accesa, il nero che si tramuta nel rosso, la razionalità che si fonde nel romanticismo, l'autorità nell'eversione. Ed è in fondo una consolazione potersi rifugiare in corner, cioè nel pensiero rassicurante che per Mourinho, quando si parla di destra e sinistra si intendono, ancora e soltanto, le fasce laterali".

In apparenza è solo il gioco del calcio. In realtà è la complessità del suo universo culturale.