AFC Ajax - Juventus FC

Le finali di Coppa dei campioni

30 maggio 1973, Stadion Crvena Zvezda, Belgrade

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Le riflessioni di Giovanni Arpino (La Stampa, 1° giugno 1973).
"Era il 30 maggio, giorno di San Felice, e noi che avevamo delibato i sortilegi di un altro santo, quel Lucifero apportatore di scudetti, potevamo sperare in una Coppa Campioni da agguantare con merito, con grinta, con quel minimo di fortuna che è indispensabile ad ogni avventura pallonara. Invece no. Tutto era stato predisposto per questo gran pranzo «Chez Maxim»: ci hanno servito una pizza.
Qualcuno parla di Aiaci micidiali, e altri si aggrappano alla supremazia del calcio tulipano, che da quattro anni domina la massima competizione europea. Siamo d'accordo solo su questi due punti: la squadra di Kovacs (ormai in partenza) è costruita con uomini che esaltano le loro doti atletiche attraverso allenamenti straordinariamente impegnati, con corse, scatti, lavoro fisico e tecnico, studio del «collettivo»; e sulle capacità dello stesso Kovacs, che ha saputo amalgamare i giganti e gli stilisti raffinati (da Blankenburg a Cruyff) secondo un modulo che ha ricavato il meglio dall'esperienza anglosassone e dalla scuola italiana. Il tutto in allegria, con grandi risate ma con un nerbo e una consapevolezza professionale che tanti «divetti» neppure sognano. 
Malgrado queste considerazioni, ci sembra opportuno e legittimo spiegare il come e il perché la Juventus ha «lasciato» una Coppa a Belgrado. Non intendiamo processare un singolo giocatore o un determinato criterio tecnico, ma mettere in vista la segreta verità di Belgrado. Le streghe pallonare in cui crediamo — anche a dispetto — sono state a loro volta sommerse dai vapori sciroccosi della prima estate serba, ma questo conta sia per Anastasi sia per Rep. I tifosi italiani giunti in Jugoslavia hanno sostenuto il nome della loro Juve dalle quattro alle otto, cantando commossi in coro l'inno nazionale prima della partita. Poi, al gol olandese, sfiatati, sudati, seduti, sono rimasti lì col groppo in gola. E' comprensibile e umano, anche se riteniamo che il gol «da tagliar le gambe» non è quello segnato a quattro minuti dall'inizio, ma a quattro dalla fine. La generosità tifosa italiana è nevrotica e bizzarra come il prodotto che esprime, cioè il calciatore? Siamo alle soglie d'un soggetto di studio da tesi di laurea. 
E veniamo alla partita. Una confessione: con estrema freddezza critica ci siamo astenuti dall'infierire sul comportamento bianconero o su quello biancorosso, abbiamo cercato di evitare il solito fascio d'erbe e di erbette che accusano il calcio all'italiana e vorrebbero Furino alto come Keizer o José fresco di ventitré anni. Restiamo ai dati, sostituendo al distacco di ieri (usato per non «dare in testa» ad alcuno) il necessario realismo d'oggi. 
La Juventus gioca da tre anni secondo un determinato modulo, che fa partire da un centrocampo manovriero le sue due « punte », alle quali si aggiungono improvvisi e rapidissimi inserimenti ora di un Capello ora di un Cuccù ora di un Causio. Ha quel «Furino in più» che contrasta, poi svaria all'ala ed opera cross, talora facili per l'opposta difesa, talora ottimi come suggerimenti al gol. Ebbene, questa Juventus conquista due scudetti. L'ultimo lo avvinghia a Roma, pur non brillando. Sa di dover affrontare in finale a Belgrado quella che passa come la miglior squadra europea, cioè l'Ajax. Questo Ajax smuove gioco e fa volar palloni per tutta la lunghezza e la larghezza del campo, defilando sempre uomini in zone libere secondo automatismi egregi. Si sa che segna (infatti «sbanca» il Bayern Monaco e poi il Real in trasferta), si sa che tiene palla con astuzia, avanzando quattro uomini in linea con due a sostegno e mettendo in fuorigioco, alla latina, gli avanti avversari. Ebbene, la Juve cambia guardia, cioè modulo, cioè schema, proprio in questa partita che non ha rivincite o alternative. Schiera tre punte, indebolisce il centrocampo, costringe il solito «Furia» a compiere trecento chilometri (ed un passaggio-gol, l'unico pulito), obbliga Causio a uscire dalla sua zona preferita (dove quando può agire, alla fine del primo tempo, subito sgobba al meglio). 
Perché? E' una domanda che non pretende risposta, ma dà come frutto quella «grande occasione mancata», definizione non solo dello «staff» bianconero ma dello stesso Cruyff, che certo di calcio se ne intende. 
Con un centrocampo imperniato sulla linea, anzi sul «quadrato» di Capello - Causio - Furino - Cuccù, con l'Anastasi spolettante come a Derby e a Budapest, la Juve sarebbe passata a Belgrado? Impossibile rispondere anche adesso. Certo avrebbe costretto gli Aiaci a centuplicare le loro offensive, magari insabbiandole in un gran filtro. E solo dopo, nel momento in cui i biancorossi fossero stati costretti a rifiatare, lì sarebbe iniziata la contromanovra torinese. 
Scirocco, streghe addormentate, un San Felice renitente ai richiami, ma soprattutto una disposizione tattica che ha concorso a svalutare il motore del «jet». Non gli ha concesso di decollare come sa, se non altro in quei venti-trenta minuti visti sia a Budapest (con virile recupero e conseguenti gol messi a segno) sia a Derby (con solida chiusura verso ogni manovra inglese e palloni-gol sprecati d'un soffio nel finale). 
Dicevamo, ripetevamo tra speranza e fermezza durante la vigilia: se la Juventus azzecca tutte le marcature entrando in campo, le sue probabilità salgono al cinquanta per cento. Ne ha azzeccate una o due su sette (dopo snervanti elucubrazioni), e sono entrati in campo, da Zoff a José, con gli sguardi smarriti. 
Ce lo hanno detto i fotografi, grilli parlanti e presenti in queste fasi che sfuggono ai più. «Come bambini», hanno ripetuto i «paparazzi» che seguono il calcio attraverso l'obiettivo da anni. Così, tra mosse a vuoto e svuotamento psichico fors'anche conseguente, la partita si è trascinata sul suo livello «naif», scadendo via via in spezzoni, in briciole di gioco. Si dice: se Bobby avesse messo dentro quel colpo di testa. Già. Giusto. Scalogna e debolezza glielo hanno impedito. Battesse dieci volte su un cross simile, Bobby ne sbaglierebbe una. Quella di Belgrado. Non vogliamo intentargli un processo per questa azione isolata anche se determinante. Non s'è dato lui l'ordine di scendere in campo. 
Il fatto è che non s'è giocata la partita possibile, o la si è giocata sovvertendo avventurosamente un dispositivo abituale che garantisce da anni ogni reparto bianconero secondo un certo movimento e interscambi sicuri. 
E gli Aiaci? Hanno scaraventato calcio pregevole, con sciabolate lunghissime per circa venti minuti. Avrebbero potuto far di più? Il quesito richiede un paragone storico: durante il famoso incontro Brasile-Italia in Messico gli stessi «cariocas», segnato il primo gol, si misero ad amministrare giocolieristicamente la partita. Poi pareggiò Boninsegna, e i Pelé e i Jairzinho dovettero sfoderare tutte le loro arti. Non si è costretto l'Ajax a fare altrettanto. Così i «tulipani» conquistano nel modo più facile la loro terza Coppa: sono giunti in finale dopo magnifiche battaglie, ma prima a Wembley contro lo squallido Panathinaikos, poi a Rotterdam contro un'Inter in pezzi, infine a Belgrado contro la sciroccata Juventus non hanno dovuto sudare le famose sette camicie. 
Gli Aiaci sono al culmine della loro parabola. L'anno prossimo potrebbero già mettere in evidenza quelle lievi incrinature che sottolineavamo, con giusta prudenza, in sede di pronostico. Però attendono ancora l'avversario che li affronti con identica esperienza ed uguale protervia tecnico-tattica, oltreché atletica. Il futuro dell'Ajax sarà da seguire, ma ancor più quello della Juve, bisognosa di una «revisione», seppur calibrata e non frettolosa. Due scudetti accentuano, non diminuiscono l'impegno. Una nuova Coppa Campioni è già nel «cartello di lavoro» per il '74. E bisogna tener presente quel pubblico che emigra e quell'altro, immenso, che guarda, quasi un terzo del globo inchiodato davanti agli schermi. La partita di Belgrado si distorce nella memoria come uno di quei macchinosi incubi che non prendono mai una forma netta, individuabile. Ma la Juventus era avviata a superare un certo tipo di calcio italiano, correggendone certe deformazioni: deve continuare su questa strada, appunto perché è la Juve di tutti. Al lavoro, «stati maggiori» e registi e goleadores, fino all'ultima recluta".