Real Madrid CF - Valencia CF

Le finali di UEFA Champions League

24 maggio 2000, Stade de France, Paris
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Real Madrid, la razza padrona, di Giancarlo Padovan ("Corriere della sera", 25 maggio 2000)

Non per sminuire l'ottava Coppa dei Campioni del Real Madrid (la prestazione è stata perentoria almeno quanto il 3-0 che l'ha sigillata), né per ironizzare sul plastico raddoppio in bicicletta dell'inglese Steve McManaman, un centrocampista d'attacco con scarsissime propensioni al gol che nella circostanza ha ricordato le sforbiciate d'altri tempi di Vito Chimenti, ma alcune riflessioni vanno fatte sia sull'eccessivo credito concesso al Valencia (il terzo gol subìto regalando 60 metri di campo a Raul dopo un calcio d'angolo in attacco è da prontuario del grottesco calcistico), sia sulla forza effettiva della formazione laureatasi per l'ottava volta campione d' Europa. Nettamente battuto, e per ben due volte dal Bayern Monaco nel girone di qualificazione prima del decisivo confronto casalingo in semifinale, il Real nel suo avvicinamento alla finale ha compiuto una sola vera impresa: il successo sul campo del Manchester United. Ma siccome non si vince mai per caso, il merito dei madridisti e di Del Bosque in particolare è stato quello di far crescere nel gruppo la consapevolezza delle proprie qualità individuali e il gusto della condivisione collettiva. Il Real, che nella Liga ha chiuso al quinto posto, ha poi dimostrato che l'abitudine a competere per i grandi traguardi appartiene al bagaglio genetico di una società forte, assai più della letteratura che se ne fa al proposito: è un connotato di potere. Le rare sconfitte non sono che eccezioni. Ieri sera, calcisticamente parlando, più del Valencia, e certamente meglio, il Real Madrid ha fatto ben prima del gol di Morientes. Il di più si riferisce alle occasioni (Canizares determinante sia nel deviare il colpo di testa di Anelka, sia nel togliere dall'angolo un tiro di McManaman); il meglio riguarda l'atteggiamento tattico: a prescindere dal modulo, comunque più spregiudicato rispetto a quello dell'avversario, la squadra di Del Bosque ha attaccato con maggiore continuità e, soprattutto, perseguendo una maggiore ricerca degli sbocchi laterali. Certo, la manovra a volte è lenta, a volte eccessivamente elaborata, a volte sia l'una che l'altra: però, a ritmi bassi, è la formazione più dotata tecnicamente a prevalere nella gestione della palla. E della felice gestione, la precisione è genitrice. Per interrompere una manovra pazientemente tessuta, il Valencia avrebbe avuto bisogno della riconosciuta aggressività di centrocampo (e invece, nel primo tempo, accade una volta appena che si assista ad un contrattacco successivo a palla riconquistata), così come sarebbe servita la velocità di fascia, dove il gioco del Valencia conduce i flussi più generosi e creativi. Al contrario proprio a destra, dove le combinazioni tra Mendieta e Angloma sarebbero dovute riproporsi con la frequenza e la facilità proprie dell'automatismo, ha prevalso l'inerzia. In partite monocordi diventa così decisiva la variazione di gioco o di ritmo: condizioni irrealizzabili se, oltre alla palla, viene meno il movimento e di conseguenza decresce lo spazio. E dopo l'1-0, il Real, in ragione delle mutate condizioni, ha modificato il proprio atteggiamento e, in parte, anche il sistema difensivo: non più a tre uomini, bensì sempre più spesso a cinque grazie all'arretramento dei due esterni, Salgado e Roberto Carlos. Per spiegarlo attraverso due episodi significativi basterebbe ricordare come nel primo tempo, in occasione del gol di Morientes, Salgado si trovasse in area avversaria a produrre, da terra, la prodezza tecnica di un assist al compagno smarcatosi sul secondo palo. E come, invece, ad inizio di ripresa Roberto Carlos fosse finito nell'elenco degli ammoniti nell'affannoso tentativo di arginare scorrettamente la ritrovata baldanza del Valencia. Tuttavia, attutito l'urto, è scattato il contrattacco in campo aperto. Quel che avrebbe voluto fare il Valencia e, invece, ha visto fare ai vincitori.